L’espressione Cloud Repatriation indica il processo di migrazione di dati e workload dal cloud pubblico verso data center privati, siano essi di proprietà dell’azienda o di terze parti. È un trend molto importante, ma soprattutto un “tool” con cui i CIO possono ottimizzare le proprie strategie multicloud.
Alcuni operatori ritengono che la cloud repatriation sia una tappa fisiologica dell’evoluzione del cloud. Dalla diffidenza iniziale, infatti, si è passati a una sorta di euforia nei confronti del cloud pubblico, alimentata dalle indubbie doti di scalabilità, innovazione e dall’approccio pay-per-use; infine, è seguito il successo dei modelli ibridi e multicloud, in grado di miscelare la flessibilità della componente pubblica con il controllo esclusivo di quella privata, che oltretutto si presta meglio a soddisfare i requisiti posti dai regolatori. Cloud Repatriation non significa, almeno per ora, eliminare dal paradigma ibrido la componente pubblica, ma ridurne il peso a beneficio di quella privata.
Il cloud porta con sé indubbi benefici, ma anche sfide e rischi. L’esperienza decennale con modelli enterprise multicloud ha permesso ai CIO di comprendere in modo dettagliato i punti di forza e le sfide aperte da ognuna delle componenti del paradigma, così da disegnare una cloud strategy sempre più in linea con gli obiettivi aziendali, che di fatto comportano un bilanciamento tra scalabilità, performance, sicurezza, resilienza, costi e capacità innovativa.
Cloud Repatriation si inserisce nel quadro evolutivo appena descritto, e non è un caso che alcuni analisti la definiscano una tattica di workload placement finalizzata a raggiungere gli obiettivi della strategia multicloud. Per questo, non è e non sarà una moda passeggera.
Per comprendere quanto la Cloud Repatriation sia un fenomeno diffuso, ci possiamo affidare ai dati di 451 Research, secondo cui il 54% delle organizzazioni ha già effettuato una migrazione di workload e/o di dati dal cloud pubblico verso l’infrastruttura on-premises, colocation o di terze parti (caso dell’Hosted Private Cloud). Sono interessanti anche le stime quantitative, visto che il 27% di queste organizzazioni ha trasferito dal 26% al 50% di tutti i suoi deployment cloud, e il 25% si posiziona a una quota ancor più elevata, con un tasso di migrazione compreso tra il 51% e 75%.
Per quanto concerne i benefici rilevati, che peraltro dipendono dal motivo della migrazione, fa scuola il caso Dropbox, che dimostra quanto il cloud pubblico sia estremamente benefico soprattutto nella prima fase di vita dell’azienda. In quella successiva, contraddistinta da un fisiologico rallentamento dei parametri di crescita, la pressione esercitata dal costo del cloud sui margini può effettivamente superare i benefici, suggerendo una repatriation. Nel caso dell’azienda americana, tale attività determinò saving pari a 75 milioni di dollari in due anni.
Perché, dunque, i CIO dovrebbero valutare un’ipotesi di cloud repatriation? Nonostante i driver siano diversi da un caso all’altro, secondo Dell è possibile farli rientrare in tre categorie principali:
Del primo fattore si è già detto. Una ricerca condotta da Dell ha rivelato che il 96% delle aziende che hanno scelto di riportare le proprie risorse in ambienti privati ha identificato l'efficienza come il principale beneficio di questa decisione. Inoltre, non c’è soltanto un tema di riduzione dei costi operativi, ma anche di maggiore trasparenza e prevedibilità: sotto questo profilo, il modello “as-a-service” potrebbe effettivamente portare fuori strada la pianificazione dei budget. Inoltre, in passato le aziende hanno spostato diversi carichi di lavoro nel cloud pubblico per rispondere a picchi di domanda temporanei, o per sperimentare nuove soluzioni. Se tali carichi di lavoro non generano più valore, l'azienda può decidere di eseguire la cloud repatriation per ridurne il costo.
Quando i workload vengono trasferiti dal public cloud all’infrastruttura proprietaria, il rovescio della medaglia non riguarda tanto l’incremento dei costi di gestione, ma piuttosto la disponibilità di risorse adeguate e competenti per gestirli. L’opzione dell’outsourcing resta valida.
Dal canto suo, 451 Research non considera gli IT costs come principale fattore di cloud repatriation. Le prime due cause di migrazione sarebbero i timori relativi alla sicurezza e le tematiche di compliance connesse alla data sovereignty. Si tratta, ovviamente, di temi molto complessi che dipendono dalle esigenze, dagli obiettivi e, soprattutto, dalla regolamentazione cui è soggetta la singola impresa. Se è vero che il public cloud inizia a essere utilizzato anche per processi critici di settori fortemente regolati, come pharma e finance, il livello di controllo possibile attraverso l’infrastruttura privata non è paragonabile a quello della controparte pubblica.
Fonte: 451 Alliance
Non da ultimo, Cloud Repatriation riduce il rischio di vendor lock-in e può essere una tattica utile a incrementare le performance dei workload e delle applicazioni mission-critical. In alcuni casi, e in determinate aree, le aziende possono infatti riscontrare problemi di prestazioni legati soprattutto alla latenza, un fenomeno che, in determinati contesti (industriale, healthcare…) ha portato allo sviluppo di sofisticati modelli edge-to-cloud.